Siamo qui, il 13 febbraio, con Marco Parente, in occasione del suo concerto all’Estragon di Bologna. Il pomeriggio è freddo e grigio ma l’atmosfera nel locale al momento pre-checksound sembra già molto buona...
Ciao, Marco. Noi ti abbiamo visto per la prima volta lo scorso Novembre al MEI di Faenza ed eri in una formazione particolare, con il solo clarinettista, volevamo chiederti da dove è venuta l’idea dei fiati. Forse dal jazz?
Principalmente sì. Personalmente non sono un grande cultore di Jazz però da sempre mi sono interessate alcune cose che io considero basilari: parlo della scoperta di Miles Davis, delle orchestrazioni di Gil Evans... Per quanto riguarda la sezione fiati invece Van Morrison e quindi la fusione tra Blues e folk. Alcuni di questi mi hanno in qualche modo formato o comunque segnato. Parlando al presente invece mi piace molto la nuova scena di Chicago, quindi il jazz d’avanguardia, quello che si apre a contaminazioni post-rock o elettroniche. In ognuno di questi aspetti ci sono delle cose che mi interessano e che io, nel mio piccolo, cerco di sviluppare. Questo per dirti che la scelta dei fiati non è casuale
Si, notavamo questa passione. Forse in Italia è raro che si trovi una sezione fiati così ben sviluppata.
Quello che noto io, soprattutto in Italia, è una grossa chiusura mentale: se per esempio fai rock allora ci si aspettano le chitarre distorte; manca dunque una visione più ampia ed aperta. Questo è un peccato perché, secondo me, siamo alla fine del talento, all’apice dell’originalità e tutto quello che rimane è farsi contaminare il più possibile da ogni piccola parte di creatività. Poi c’è da dire che tra le mie passioni musicali più grandi ho tracciato delle linee comuni e ho trovato dei momenti che vanno al di là del genere in sé e che arrivano all’essenza della musica.
Se riguardo alla sostanza sei così aperto, parliamo di forma... Nel disco c’è Fuck Art & (let’s dance), questo pezzo elettronico che sembra un po’ ironico, un po’ realistico… Tu la forma elettronica la trovi stimolante o pensi invece che riduca le possibilità creative?
Beh, nel caso di Fuck Art la parte elettronica è molto radicale. Però la mia “critica”, qualora ce ne fosse una, è riferita all’elettronica dance che svilisce la musica e ti porta ad una totale assenza di approccio critico o estetico. Però se si parla dell’elettronica come materia musicale invece no, mi ci sto appassionando tanto. Lorenzo Brusci, il musicista con il quale ho lavorato a Fuck Art e Anima gemella (i due pezzi elettronici), è stato estremamente stimolante ed affascinante.
Non escludi di poter continuare ad utilizzare dei richiami elettronici o comunque contaminazioni in generale quindi..
No, assolutamente. Il mio proposito è quello di riuscire, almeno in un evento, ad evidenziare e dare approfondimento a quelle che sono le varie anime del disco. Prima di Natale abbiamo appunto fatto un concerto che dava spazio a questo lato elettronico dell‘album, con Lorenzo Brusci sul palco. Al contrario, lo show di stasera sarà molto più classico. Spero in primavera di riuscire a fare un concerto solo con la Big Band, in cui assisteremo ad una sorta di “classicizzazione” delle mie canzoni mentre, utilizzando influenze elettroniche, c’e’stata un’estremizzazione.
Abbiamo letto l’auto-recensione che hai fatto al tuo ultimo album. Più volte l’hai definito un album “difficile”. Volevamo sapere in che misura tu pensi che sia difficile e perché
Forse più che difficile potremmo dire schizofrenico. Ha varie anime e quindi capisco che l’appoccio possa destabilizzare. Dal punto di vista strutturale sicuramente Testa, dì cuore è molto più difficile di questo: è iperstrutturato, c’è voluto molto più tempo per realizzarlo, è stato più pensato... Con la realizzazione di Trasparente invece c’è stata l’idea iniziale, che per altro è stata anche l’idea produttiva di Manuel (Agnelli NdR), di tirar fuori in maniera evidente il mio modo di comporre e di scrivere all’essenza. Cercare di portare fuori il più possibile le mie caratteristiche vocali e compositive. Poi, in un secondo momento, pensare alle strutture di supporto. Manuel stesso si è trovato davanti ad una situazione abbastanza chiara definita da me in preproduzione, nel senso che era già abbastanza evidente quale fosse la mia direzione... Questo l’ha aiutato ad essere lucido e a capire cosa fosse importante e cosa no, al fine di avere un certo tipo di risultato essenziale. Ovviamente la voglia di arrangiare e sovrastrutturare c’è sempre, ma in questo disco volevamo essere veramente essenziali. Un’altra cosa da dire è che questo album non rappresenta un percorso. Al contrario, ogni canzone è a se stante e difficilmente continua il discorso iniziato da altre. Visto in questo modo allora può essere un disco difficile perché disorienta. Spesso non si riesce a capire quali siano i riferimenti e questo sicuramente spiazza. Inoltre devo dire una cosa, la voglia di concentrarsi è sempre minore. Lo noto anche ai concerti: la gente non riesce a stare più di 30 minuti concentrata.
Questo può essere un risvolto dell’accelerazione e della frammentazione della cultura, che in gran parte è dovuta alle nuove possibilità e abitudini tecnologiche... A tale proposito, come vivi il rapporto con le nuove tecnologie? Abbiamo assistito tra le altre cose alla chat che hai fatto con la radio online Loser.
La tecnologia ha sempre segnato tutto, è inevitabile che invada un po’ ogni campo e, sicuramente, non la si può rifiutare a priori. Bisogna saperla usare però, perché spesso è adoperata per semplificare processi che non andrebbero semplificati, portando ad una sorta di impigrimento. Parlando invece di tecnologia nell'abito prettamente musicale, secondo me dipende a in che modo la si applica. Io la considero come un nuovo strumento: è logico che se si usa un campionatore per simulare un quartetto d'archi o un pianoforte in studio non mi va bene perchè sfinisce tutta la creatività. Al contrario però, se è per dare concetto e forma ad un particolare rumore o suono, allora è sicuramente qualcosa di positivo.
Sul singolo Davvero trasparente in un pezzo, Parola di pesce, hai usato appunto dei campioni vocali. Saremmo curiosi di sapere com’è nato.
Quello è un pezzo del ‘95. Fa parte di una trilogia e Parola di pesce sta a significare l’assenza della parola e di come il suono poteva diventare significato. Perciò non ho utilizzato parole, ma solo dei vocalizzi che per me hanno un contesto preciso e assumono una loro forma. La parte divertente sta nell’attribuire questa espressività a un pesce... L’idea mi era venuta perché avevo da poco visto un concerto di Meredith Monk, che fa parte della scuola americana della sperimentazione sulla vocalità. C’era lei sola sul palco che faceva cose pazzesche, che per me erano più espressive della poesia, mi parlavano secondo altri punti di vista e mi raggiungevano attraverso altri percorsi... Esperimenti vocali che mi facevano emozionare tantissimo. Da lì si è lavorato a questa triologia mancata: manca però l’ultimo pezzo.
Quindi la voce intesa come strumento... Qui ci riallacciamo ad una domanda che già volevamo farti: qual è lo strumento (voce compresa) che ti piace di più suonare, e quale ascoltare?
Sicuramente la voce è una cosa che mi ha sempre attirato, ancor prima di iniziare a cantare. Prima di tutto perché è uno strumento incontrollabile ed inesplorabile: diversi spessori, conformazioni ecc… Poi anche il fatto che le puoi dare doppi significati: il suono ma anche il contenuto verbale. Per quanto riguarda uno strumento musicale da suonare, in questo periodo ho la fissa del pianoforte, mi piace tantissimo suonarlo.
Una cosa che ci ha sempre particolarmente incuriositi: tute le varie collaborazioni con Carmen Consoli, Cristina Donà, La Crus ecc., viste da fuori sembrano processi abbastanza naturali. Allo stesso tempo ci chiediamo se è tutto davvero così “naturale” e “amichevole” come appare o se, in alcuni casi, ci sono delle “manovre” consigliate dalle case discografiche. E’ davvero tutto così rose e fiori come sembra?
No, le case discografiche non c’entrano nulla. Sicuramente una collaborazione nasce dalla curiosità. Con Carmen Consoli è stato diverso: io l’avevo vista prima del secondo Sanremo e devo dire che, chitarra e voce, mi aveva davvero trasmesso qualcosa. D’altra parte ci sono dei pezzi dove io non mi basto minimamente e ho bisogno del confronto con una voce femminile. Allora la Consoli non la conoscevo, avevo un brano e ho pensato di eseguirlo con lei. Ho chiesto alla casa discografica di contattarla e lei ha subito accettato. Da lì i rapporti sono andati avanti amichevolmente. Con Cristina Donà la cosa si è sviluppata in maniera completamente diversa: è nata prima l’amicizia e poi abbiamo pensato di collaborare.
Nell’ultimo album affermi in più punti che, secondo te, per cambiare la società bisogna passare attraverso la sfera personale, attraverso singoli atti di amore e di generosità. Adesso, a costo di apparire retorici, come la vedi?
Io credo che dovremmo magari parlare con i nostri nonni: chi la seconda guerra mondiale l'ha vista, sa cosa vuol dire la guerra. E poi, di conseguenza, decidere se andare in piazza o non andare in piazza, dare valore a questi fatti non dargliene... Sono tutte posizioni legittime. Pero' se questo discorso lo fai prima con te stesso, eviti tanti equivoci. Equivoci che crea la politica, che crea la massa quando si mette insieme... La massa in quei casi è pericolosa. Non posso fare a meno di fare come faceva Pasolini, cioè distinguere le cose e guardarle fino in fondo. Allora vedo, per esempio, Genova, il G8: nn si parlerebbe di G8 e non avrebbe questa rilevanza anche nei media se quei 4 o 5 black block (non mi interessa motivati da chi) non avessero fatto quel macello. E c'è poi chi si deve sacrificare, cioè poi ci scappa il morto. La guerra ce l'hai dentro, come hai dentro il genio, il suicida, il misero, hai tutto. A seconda della fortuna e del contesto sociale in cui tu cresci hai la possibilità di tenere sotto controllo un lato o l'altro lato. Chi non ha niente da perdere fa come il bambino che succhia la colla, nella canzone Succhiatori: succhia la colla consapevole del suo ruolo, molto più di quanto non lo sia il turista che va lì e che pensa di potergli dire cosa deve fare. Se da una parte ci sei tu, turista, con quel portafogli pieno di dollaroni, è perchè dall'altra parte c’è lui che non ne ha. Purtroppo questo è l' “equilibrio” che l'uomo è riuscito a stabilire. Tutti abbiamo quindi in linea teorica le stesse possibilità, tutti possiamo capire tutto, poi molto sta al destino, al contesto in cui tu nasci, cresci e muori. Riguardo al conflitto che dovremo probabilmente affrontare, la protesta è cambiata dai tempi del Vietnam, ed è molto più difficile che riesca a scuotere la società facendola in quel modo, è cambiato il mondo, sono cambiate le generazioni, è cambiata la tecnologia.Però è certo che dal punto di vista cinico di un economista la seconda guerra mondiale ha portato ricostruzione e benessere, cioè noi in Italia siamo stati bene fino a 10 anni fà, finchè abbiamo potuto far finta che non ci fosse la corruzione, tanto stavamo bene. Invece leggevo un economista di fama internazionale che esaminava nella stessa maniera cinica questa probabile guerra futura... Il risultato: questa guerra non fa bene a niente, nemmeno all’economia. Non va bene per il petrolio e l’articolo spiega perchè, non va bene per produrre nuove armi perchè ancora ne avanzano dai tempi della prima Guerra del Golfo. Il bilancio è spostato dello 0.1 %, cioè niente...
L'unica speranza è in Francia, Cina, Russia ecc. che stanno provando a fermare questa insensatezza, non credo che gli USA faranno guerra all’Europa. Quanto a quel che possiamo fare noi, ognuno può fare qualcosa nel suo piccolo, può andare alla manifestazione ma può anche non farlo senza essere additato come guerrafondaio o qualunquista... Magari ha trovato un modo silenzioso di dimostrare ciò che penso.
Ci lasceresti una dedica da scannerizzare per i lettori del giornale?
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Ecco la dedica che Marco ha preparato per i lettori de “la scena”!
a cura della Redazione di LaScena.it
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